La mia sopravvivenza

Anni 1970 – 1980 (toscana), tutto è iniziato così.

Oggi, dopo 64 anni di vita (1960-2024) posso tirare le somme e ricordare quello che facevo e come lo facevo in ambienti ostili, a stretto contatto con la natura, lontano dalla civiltà. Non avevo macchine fotografiche o cineprese o registratori.

Non avevo un manuale di sopravvivenza, non sapevo nemmeno che esistessero e non sapevo certamente che si potevano allestire i kit e che si potevano acquistare strumenti idonei molto utili. Non esisteva internet e le cose, in campagna lontano dai centri abitati più grandi (dove reperire informazioni e vedere negozi) non era facile impararle come può esserlo oggi.

Avevo uno zaino militare dell’aeronautica, di colore blu sbiadito, che mi aveva regalato il mio vicino di casa (era di suo figlio), era di tessuto naturale, non ricordo se cotone, canapa o altro. Avevo un coltello con manico in cuoio e guardia e pomolo in alluminio, lama in acciaio al carbonio lunga forse 10-12 cm. Avevo un coltello Zuava chiudibile con lama in acciaio al carbonio di 10 cm., manico in osso nero. Avevo infine un coltello chiudibile sfilato, con lama in acciaio al carbonio di 12 cm. e manico in legno. Avevo un rotolo di spago da 1 mm., che all’agraria vendevano per legare le salsicce e i salumi di maiale fatti in casa, quando si ammazzava il maiale a dicembre. Poi cosa avevo? I fiammiferi impermeabili e anti vento, che un amico mi aveva portato da Roma. Non li utilizzavo mai perché avevo paura di… terminarli. Per accendere il fuoco si utilizzavano i fiammiferi o i cerini. La mia mamma mi aveva regalato quello che noi si chiamava “incerato”, era un telo gommoso impermeabile abbastanza grande che utilizzavo per ripararmi dalle intemperie e per isolare il tetto del rifugio. Il telo lei lo aveva utilizzato per metterlo tra il lenzuolo e il materasso di mia nonna, ma ora non serviva più… Portavo con me una tazza smaltata di circa mezzo litro, rossa fuori e bianca dentro. La rubavo alla mia nonna (l’altra nonna, non quella dell’incerato che purtroppo…) e la sera la dovevo riportare, perché lei ci doveva bollire il caffè d’orzo per fare colazione alla mattina.

La mia nonna abitava in una piccola casetta vicino alla nostra, insieme a mio nonno. In casa non avevano acqua (che andava a prendere alla fontana) e nemmeno il bagno… quella sì che era sopravvivenza! Il mio nonno era una miniera d’oro e riusciva a risolvere i problemi che si presentavano anche con… niente a disposizione. Teneva la sua roba dentro una scatola di latta di biscotti per bimbi, la teneva sopra una mensola di legno in cucina e quando mi ci faceva guardare dentro era una festa. C’era la lesina (che noi si chiamava subbia) e ci cuciva gli scarponi quando si rompevano , ma ci riparava anche cinture, cappelli, giacche, …, lo spago per cucire (lo stesso spago per la salsiccia che usavo anche io), un coltello chiudibile da innesto, un paio di forbici “potatoie”, un martello piccolo e una scatoletta con i chiodini che noi chiamavamo “semensine”, un rotolino di filo per cucire robustissimo, che non si rompeva con le mani, alcuni aghi grandi e piccoli, c’era poi la “sugna” che era un grasso che lui faceva quando ammazzava il maiale, lo teneva dentro un pezzo di carta oleata e lo usava per tutto l’anno per ingrassare gli scarponi da lavoro di cuoio, c’era poi una pinza piccola e abbondante filo di ferro e poi c’era… non ricordo più. Quella scatola era il suo kit di sopravvivenza. Il mio primo coltello pieghevole me lo ha regalato proprio mio nonno quando avevo otto anni, era un coltello regionale italiano, una zuava o un senese, non mi ricordo, lama 7/8 cm., comprato in ferramenta da “Pippo”.

Non avevo un libro o altro materiale per studiare, studiavo in altri modi…

Guardavo i pastori che costruivano piccole capanne (per ripararsi quando erano dietro al gregge) con la scopa da bosco (erica arborea e erica scoparia o scopa o scopiglio) e legavano il tutto con pezzi di filo di ferro recuperato dalle presse di paglia o di fieno.

Guardavo i cacciatori che di ritorno da una giornata di caccia, appendevano la lepre o il fagiano, sistemandoli e preparandoli per portarli a casa, praticamente già pronti per essere cucinati.

Guardavo i contadini che lavoravano e sistemavano la terra con gli attrezzi manuali che avevano disponibili e facevano miracoli con quello che gli rimaneva dopo aver diviso i raccolti con il proprietario delle terre. Guardavo sopratutto i loro metodi per trattare gli animali domestici allevati e poi ammazzati e lavorati (senza frigoriferi e congelatori) per sfamare l’intera famiglia (il maiale era il più difficile e laborioso).

Guardavo come si conservava la frutta, la verdura, gli ortaggi e come già scritto la carne, senza frigoriferi o congelatori. La carne (ma anche il pesce di fiume) si affumicava, oppure si essiccava, oppure si cuoceva e poi cotta si metteva sottolio. Gli insaccati ci si mettevano anche crudi sottolio, dopo averli fatti asciugare bene. Appesi all’aria rimanevano invece (si parla di maiale) i prosciutti, le spalle, le coppe, le pancette e il guanciale, i “busicchi”, la salsiccia e il mazzafegato; invece: con la testa intera (orecchie e una piccola parte del guanciale compresi), alcune cotenne e le zampe (e un pò di carne sanguinosa e grasso della pancia) ci si faceva la “soppressata”; con il sangue invece si facevano salami chiamati “brusto”, “buristo” o “sanguinaccio”. Anche le verdure si scottavano nell’aceto e poi si mettevano sottolio. Con i pomodori invece ci si faceva la salsa e si metteva dentro le bottiglie di vetro della birra che si beveva ogni tanto durante l’anno (anche le bottiglie si riciclavano). I tappi nuovi per le bottiglie si compravano alla solita agraria.

Guardavo quando le persone prendevano il grano e lo portavano al mulino, ritornando a casa con la farina, che le donne trasformavano in pane, pasta, focaccia.

Di qualsiasi cosa, di origine animale o vegetale, non si buttava niente e, anche quando le rimanenze sembravano scarti, si trovava sempre il modo di riutilizzarle.

Guardavo i boscaioli che con accetta, seghe (poche e rare motoseghe) e altri attrezzi manuali come pennati e roncole, lavoravano nel bosco e intorno alla legna. La legna si lavorava anche a casa perché era praticamente la sola fonte di riscaldamento e per cucinare (c’erano anche le bombole di gas, ma costavano tanto e non sempre si potevano comprare).

Tutto questo si guardava fare, ma si imparava anche a farlo, perché era necessario imparare per vivere e per aiutare in casa.

Eravamo tutti survivalisti senza saperlo? Tutti sicuramente, no! Ma molti sì. Gli anni passano, i tempi cambiano e diventa più facile imparare tante cose. Ma ho anche capito con gli anni che tutto quello che ho imparato all’inizio non era sbagliato, anzi… quella è stata la migliore scuola che si potesse desiderare per imparare le basi della sopravvivenza…

Tutto è iniziato così e si è poi perfezionato, anno dopo anno e ancora dura dopo oltre quarant’anni. Non ci vado più oggi a dormire nei boschi lontano dalla civiltà, ma queste cose mi mancano. Mi mancano, quando andavo a dormire in un luogo isolato (quasi sempre bosco) i silenzi che c’erano al calare del sole e mi mancano anche i rumori che rompevano quei silenzi. Un foglia secca o un piccolo ramo che cadevano dall’albero creavano apprensione, immaginando al buio chissà quale origine del rumore, non lontano c’era l’acqua e ogni tanto si sentivano tonfi di qualcosa che andava in acqua. Erano in massima parte ranocchie, ma si stava sempre sul chi va la. Poi di notte mi avvicinavo alle pozze di acqua più ferma, sulle sponde e distante dal centro del torrente o del fiume e facevo luce con una torcia di fuoco o una torcia elettrica. Se ero fortunato si vedevano i pesci che dormivano e allora… c’era qualcosa da mangiare il giorno dopo. Con l’acquisto dei primi libri ho scoperto che molte cose che facevo io… le facevano anche altri. Non ho mai capito però perché in quei libri non si parlava mai di cose di tutti i giorni e tipicamente “campagnole” come le roncole, i pennati, le accette e le seghe ad arco, che sono tra le cose più utili in natura, forse anche più utili di un coltello. Uno dei primi libri che ho avuto (e ho ancora) è stato: il manuale del Trapper di Andrea Mercanti. Era bellissimo per quei tempi. Quello che spiegava è stato utile anche alle generazioni che sono venute dopo e che avevano a disposizione attrezzature più moderne e performanti.

Quanto riuscirei oggi a sopravvivere in mezzo alla natura lontano da tutto e da tutti? Sinceramente non lo so e ogni tanto ci penso. Se non avessi problemi nel trovare l’acqua, forse sopravvivrei anche tanti giorni. Dove c’è acqua c’è vita, basta solo sapersi organizzare e fare buon viso a cattiva sorte. Mia moglie vorrebbe andare per un fine settimana a dormire in un bosco una o due notti, lontano dalla civiltà, chissà che verso la fine dell’estate non lo facciamo di nuovo, il posto l’ho già individuato, ci sarebbe da camminare per qualche chilometro a piedi dopo aver lasciato l’auto, ma questo non ci fa paura.

Non è facile raccontare di sopravvivenza e, tanto meno spiegarne le tecniche. Il survivalismo non è semplice, Il grado di preparazione dipende sia dagli ambienti che si frequentano che da chi ti sta vicino e… non è uno scherzo quando inizi a parlarne agli altri e sopratutto alla tua famiglia. Se sei solo devi considerare tanti risvolti e vedere gli altri come potrebbero reagire. Se hai una famiglia, tua moglie e i tuoi figli dovrebbero essere un po’ speciali per comprendere cosa stai facendo e come lo fai. In questo sono stato fortunato, la mia famiglia in questo senso è stata il massimo che potessi desiderare e sopratutto mia moglie ha capito perfettamente cosa stava succedendo e cosa stavo facendo e di questo non posso che ringraziarla per avermi assecondato e per avermi aiutato a crescere e ad imparare sempre cose nuove.